sua attenzione risaliva verso piazza Venezia.

      "Ah,  mio  caro" diss'egli a Franz,  "non avete visto quel calesse

      pieno di contadine romane?"

      "No."

      "Ebbene, vi assicuro che ci sono delle graziose signore."

      "Quale disgrazia che siate mascherato  mio  caro  Alberto!"  disse

      Franz.  "Sarebbe  stato  il  momento  di rifarvi di tutti i vostri

      sconcerti amorosi."

      "Oh" rispose egli, metà ridendo, metà convinto, "spero bene che il

      carnevale non trascorrerà senza qualche allettante avventura."

      Ad  onta  della  speranza  di  Alberto,   tutto  il  giorno  passò

      senz'altra avventura, che l'incontro due o tre volte rinnovato del

      calesse  che  portava  le  contadinelle  romane: in uno di questi,

      fosse caso o studio,  la maschera cadde dal  volto  d'Alberto,  ed

      egli  approfittò  di  quella congiuntura per prendere quanti fiori

      poté, e gettarli nel calesse.

      Senza dubbio una delle graziose  signore  che  Alberto  indovinava

      sotto  il costume da contadina fu colpita da questa galanteria,  e

      quando le due carrozze tornarono ad incontrarsi, gettò un mazzetto

      di violette nella carrozza dei due amici.

      Alberto si precipitò a raccoglierlo,  e siccome  Franz  non  aveva

      alcun  motivo  di  credere  fosse a lui diretto,  lasciò che se ne

      impadronisse.

      Alberto  lo  appuntò  vittoriosamente  in  petto,  e  la  carrozza

      continuò il corso trionfante.

      "Ebbene" disse Franz, "ecco il principio di un'avventura."

      "Ridete quanto volete" rispose,  "ma credo veramente di sì; perciò

      non lascio più questo mazzetto."

      "Per Bacco, lo credo bene!" confermò Franz ridendo. "E' un segnale

      di riconoscimento."

      Lo scherzo prese ben presto il  carattere  della  realtà:  quando,

      sempre condotti dalla fila, Franz ed Alberto incontrarono di nuovo

      la carrozza delle contadine,  quella che aveva gettato il mazzetto

      ad Alberto, batté le mani vedendo che lo aveva messo in petto.

      "Bravo!  mio caro,  bravo!" disse Franz.  "Ecco  che  la  cosa  si

      prepara  a meraviglia.  Volete che vi lasci?  Avete più piacere di

      restare solo?"

      "No"  disse,   "non  imbrogliamo  le  cose:   non   voglio   farmi

      accalappiare  come  uno  stupido  alla  prima  occasione,  per  un

      convegno sotto l'orologio come diciamo al ballo dell'Opéra.  Se la

      bella  contadina  ha  volontà di spingere la cosa più innanzi,  la

      ritroveremo domani,  o piuttosto lei troverà noi;  allora mi  darà

      segno, e vedrò ciò che mi converrà fare."

      "Invero, mio caro Alberto" disse Franz, "siete saggio come Nestore

      e prudente come Ulisse, e se la vostra Circe giunge a trasformarvi

      in  una  bestia  qualunque,  bisognerà  che  sia  molto  destra  e

      possente."

      Alberto aveva ragione: la bella  sconosciuta  aveva  deciso  senza

      dubbio  di  non  spingere  le  cose più in là quel giorno;  perché

      quantunque facessero ancora diversi  giri,  non  rividero  più  la

      carrozza  che  cercavano  con  attenzione,  e  che sicuramente era

      sparita per una delle vie traverse.

      Allora ritornarono al palazzo Ruspoli.  Il conte era  sparito  col

      domino  turchino;  le  due  finestre  parate  col  damasco  giallo

      continuarono però ad essere occupate da persone  senza  dubbio  da

      lui invitate.

      La medesima campana che aveva suonato l'apertura della mascherata,

      suonò  il  ritiro: la fila del Corso si ruppe al momento,  e in un

      attimo tutte le carrozze disparvero per le strade traverse.  Franz

      ed  Alberto  erano  in  quel  momento  dirimpetto  alla  via delle

      Muratte;  il cocchiere sfilò senza dir niente,  giunto alla piazza

      di Spagna si fermò davanti all'albergo.  La prima cura di Franz fu

      d'informarsi del conte,  per  esprimergli  il  dispiacere  di  non

      essere  andato  in tempo a riprenderlo;  ma Pastrini lo tranquillò

      dicendogli che il conte di  Montecristo  aveva  ordinata  un'altra

      carrozza per lui, e che questa era andata a prenderlo alle quattro

      al palazzo Ruspoli.

      Era  inoltre  incaricato  da  parte sua di offrire ai due amici la

      chiave del suo palco al teatro Argentina.

      Franz interrogò Alberto sulla sua disponibilità;  ma questi  aveva

      grandi disegni da mettere in esecuzione prima di pensare ad andare

      a teatro: per cui,  invece di rispondergli,  s'informò se Pastrini

      avesse potuto procurargli un sarto.

      "Un sarto! E per che farne?" domandò l'albergatore.

      "Per farci da oggi a domani degli abiti da  contadini  romani  più

      eleganti che sia possibile."

      Pastrini scosse la testa.

      "Farvi  da  oggi  a domani due abiti?" gridò.  "Questa è,  domando

      perdono a Vostra Eccellenza,  una vera domanda alla francese.  Due

      abiti  quando  da  oggi a otto giorni non trovereste certamente un

      sarto che vorrebbe attaccarvi sei bottoni ad un gilè,  quand'anche

      li pagaste uno scudo l'uno."

      "Bisogna dunque rinunciare a procurarsi gli abiti che desideravo?"

      "No,  perché li troveremo belli e fatti.  Lasciate a me la cura, e

      domani  quando  vi  sveglierete,   troverete  una  collezione   di

      cappelli, di vestiti e di calzoni di cui rimarrete soddisfatto."

      "Mio  caro"  disse  Franz  ad  Alberto,  "rimettiamoci  al  nostro

      albergatore;  egli ci ha di già provato che è  un  uomo  pieno  di

      risorse, pranziamo dunque tranquillamente e dopo il pranzo andiamo

      a vedere l'Italiana in Algeri."

      "Si,  ma  pensate  Pastrini che il signore ed io annettiamo la più

      alta importanza ad avere gli abiti che vi abbiamo domandati."

      Pastrini assicurò un'ultima volta i suoi ospiti che non avevano ad

      inquietarsi di niente, e che sarebbero stati serviti a seconda dei

      loro desideri. Alberto e Franz dopo ciò risalirono per levarsi gli

      abiti da pagliacci.

      Alberto nello spogliarsi custodì con molta  cura  il  mazzetto  di

      viole, questo era il segno di riconoscimento per l'indomani.

      I due amici si misero a tavola;  ma,  pranzando,  Alberto non poté

      fare a  meno  di  osservare  la  netta  differenza  fra  i  meriti

      rispettivi  del  cuoco  di  Pastrini,  e  di  quello  del conte di

      Montecristo.

      La verità costrinse Franz a confessare ad onta  delle  prevenzioni

      che  sembrava  avere  contro  il  conte,  che  il paragone non era

      vantaggioso per il cuoco di Pastrini.  Alla  frutta  un  domestico

      venne ad informarsi a quale ora desideravano la carrozza.

      Alberto  e  Franz  si  guardarono,  temendo  realmente  di  essere

      indiscreti.

      Il domestico li capì:

      "Sua Eccellenza il conte di Montecristo fa sapere  loro  di  avere

      disposto perché la carrozza restasse sempre agli ordini delle Loro

      Signorie;   potranno  perciò  usarne  liberamente,   senza  essere

      indiscreti."

      I giovani decisero di approfittare fino alla fine  della  cortesia

      del  conte ed ordinarono di mettere in ordine mentre si cambiavano

      gli abiti gualciti e sporchi per i  giochi  a  cui  avevano  preso

      parte  nella  giornata.  Dopo questa cautela,  passarono al teatro

      Argentina, dove presero posto nel palco del conte.

      Durante il primo atto la contessa G. entrò nel suo palco.

      Il primo sguardo lo diresse dalla parte dove la sera  prima  aveva

      visto  il singolare sconosciuto;  vide subito Franz ed Alberto nel

      palco di colui sul conto del quale aveva espresso a Franz,  appena

      ventiquattro  ore  prima,  una  strana  opinione.  Diresse  il suo

      occhialino su di lui con tanta assiduità,  che Franz capì  sarebbe

      stata una crudeltà ritardare di soddisfare la curiosità di lei.

      Così  profittando  del  privilegio  accordato  agli spettatori dei

      teatri italiani, che consiste nel convertire il teatro in una sala

      da ricevimento,  i due amici lasciarono il palco per presentare  i

      loro omaggi alla contessa.

      Appena entrati nel palco la dama fece un segno a Franz di mettersi

      al posto d'onore, ed Alberto questa volta si pose accanto a lei.

      "Ebbene"  disse,  accordando  appena  a Franz il tempo di sedersi,

      "sembra che non abbiate avuto  niente  di  più  urgente  che  fare

      conoscenza  col nuovo lord Ruthwen...  Eccovi i migliori amici del

      mondo!"

      "Senza essere inoltrati,  quanto dite,  in una reciproca amicizia"

      rispose  Franz,  "non posso negare di aver abusato tutto il giorno

      della sua gentilezza."

      "Come, tutto il giorno?"

      "In fede mia, questa è la vera parola che conviene. Questa mattina

      abbiamo accettata da lui una colazione;  durante  tutto  il  tempo

      delle  maschere  abbiamo  girato  il  Corso nella sua carrozza;  e

      finalmente questa sera veniamo allo spettacolo nel suo palco."

      "Voi dunque lo conoscete?"

      "Sì e no!"

      "Come mai?"

      "Questa è una lunga storia."

      "Che voi mi racconterete?"

      "Essa vi farà paura."

      "Ragione di più..."

      "Aspettate almeno che abbia uno sviluppo."

      "Sia così: amo le storie complete.  Intanto  com'è  che  vi  siete

      trovati a contatto? Chi vi ha presentato a lui?"

      "Nessuno;  al  contrario,  si  è fatto presentare a noi ieri sera,

      dopo che vi ho lasciata."

      "Per mezzo di chi?"

      "Oh, mio Dio,  con un mezzo molto triviale,  con quello del nostro

      albergatore."

      "E' dunque alloggiato all'albergo Londra?"

      "Non solo nel medesimo albergo, ma nello stesso piano."

      "E come si chiama? Dovete certo conoscerlo di nome."

      "Perfettamente: il conte di Montecristo."

      "Non è un nome di famiglia antica."

      "No, è il nome dell'isola che ha comprato."

      "Ed egli è conte?"

      "Conte toscano."

      "Ci  adatteremo  a questo come agli altri" riprese la contessa che

      era di una delle più grandi ed antiche famiglie delle vicinanze di

      Venezia. "E che uomo è?"

      "Domandatene al visconte de Morcerf."

      "Voi sentite, signore, vengo rimessa al vostro giudizio..."

      "Saremmo incontentabili,  se non lo  trovassimo  gentile"  rispose

      Alberto.  "Un vecchio amico non avrebbe fatto più di quello che ha

      fatto, e ciò con tanta grazia,  delicatezza e cortesia,  che fanno

      conoscere in lui un vero uomo di mondo."

      "Attento!"  disse  la  contessa  ridendo.  "Vedrete che il mio bel

      vampiro non sarà che un qualche nuovo arricchito  che  vuol  farsi

      perdonare i suoi milioni. E lei. l'avete veduta?"

      "Chi, lei?" domandò Franz ridendo.

      "La bella greca di ieri sera."

      "No, credo di aver inteso il suono della sua "guzla", ma è rimasta

      perfettamente invisibile."

      "Vale  a dire,  quando voi dite invisibile,  mio caro Franz" disse

      Alberto, "è soltanto per fare il misterioso.  Per chi avete dunque

      preso  quel domino turchino alla finestra parata di damasco bianco

      del palazzo Ruspoli?"

      "Il conte dunque aveva una finestra al palazzo Ruspoli?"

      "Sì, siete passata per il Corso?"

      "Sì, e chi non è passato per il Corso quest'oggi?"

      "Avete osservate due finestre parate di damasco giallo,  ed una di

      damasco bianco con una croce rossa?  Queste tre finestre erano del

      conte."

      "Davvero!?  Dunque,  è  un  nababbo?  Sapete  quanto  costano  tre

      finestre  come  quelle  per  gli  otto  giorni  del carnevale?  ed

      aggiungete nel palazzo Ruspoli che è nella più bella posizione del

      Corso?". "Due o trecento scudi romani."

      "Dite piuttosto due o tremila."

      "Oh, diavolo."

      "E' forse dalla sua isola che ritrae queste rendite?"

      "La sua isola non gli frutta un baiocco."

      "Perché dunque l'ha comprata?"

      "Per fantasia."

      "Dunque è un originale?"

      "Il fatto è" disse Alberto,  "che mi è sembrato molto  eccentrico.

      Se abitasse Parigi,  se frequentasse i nostri teatri,  vi direi, è

      un triste dicitore che fa il dandy, o è un povero diavolo che si è

      perduto nella moderna letteratura.  In  verità  questa  mattina  è

      venuto fuori con due o tre uscite degne di Didier o d'Antony."

      In quel momento entrò una visita,  e secondo l'uso Alberto dovette

      cedere il posto all'ultimo arrivato;  questo decise  non  solo  il

      cambiamento del luogo, ma anche dell'argomento.

      Un'ora dopo i due amici tornavano all'albergo.

      Pastrini  si  era  già  occupato  dei  loro  abiti da maschera per

      l'indomani,  e promise loro che sarebbero stati soddisfatti  della

      sua intelligente alacrità.

      L'indomani  alle  nove  entrò  nella  camera di Franz con un sarto

      carico di otto o dieci costumi da contadini romani. I due amici ne

      scelsero due simili,  e che andavano bene alla  loro  corporatura,

      incaricarono l'albergatore di far cucire dei nastri a ciascuno dei

      cappelli, e di procurar loro due di quelle belle sciarpe di seta a

      righe traverse con colori vivi,  di cui gli uomini del popolo sono

      soliti cingersi la vita nei giorni di festa.

      Alberto aveva fretta di vedere qual figura avrebbe fatta col nuovo

      abito che si componeva di una giacca e  un  pantalone  di  velluto

      turchino,  di calze ad angoli ricamati,  di scarpe con le fibbie e

      di gilè di seta. Il giovane, del resto, non poteva che guadagnarci

      con questo abito pittoresco e quando la  sciarpa  ebbe  cinto  gli

      eleganti fianchi,  quando il cappello leggermente piegato sopra un

      orecchio,  lasciò  cadere  un  gran  mazzo  di  nastri,  Franz  fu

      costretto  a confessare che i costumi hanno sovente una gran parte

      nella superiorità fisica che si accorda ad alcuni popoli. I turchi

      nei tempi addietro,  tanto pittoreschi con le loro zimarre lunghe,

      di  colori  vivi,  non  sono ora ributtanti coi soprabiti turchini

      abbottonati,  e la calotta greca che dà l'aspetto di una bottiglia

      di vino con turacciolo rosso?

      Franz si congratulò con Alberto, che rimasto in piedi davanti allo

      specchio,  sorrideva a se stesso con un'aria di soddisfazione, per

      nulla equivoca.

      In quel mentre entrò il conte di Montecristo.

      "Signori" disse loro,  "per quanto sia gradevole  un  compagno  di

      piacere,  la libertà è ancora più gradevole.  Vengo ad annunziarvi

      che per oggi ed i giorni successivi lascio a  vostra  disposizione

      la carrozza di cui vi siete serviti ieri. Il nostro albergatore vi

      avrà detto che ne ho prese in fitto tre o quattro;  voi dunque non

      me  ne  private:  usatene   liberamente,   sia   per   andare   ai

      divertimenti,  sia  per  i  vostri  affari.  Il  nostro  luogo  di

      convegno,  se  avremo  qualche  cosa  a  dirci,  sarà  il  palazzo

      Ruspoli..."

      I  due giovani volevano fare qualche osservazione,  ma non avevano

      alcuna buona ragione per rifiutare un'offerta che,  d'altra parte,

      gradivano assai, e finirono con l'accettare.

      Il  conte  di  Montecristo  restò  circa  un quarto d'ora con loro

      parlando di tutto con  molta  facilità.  Era,  come  si  è  potuto

      osservare,  molto  al corrente della letteratura di tutti i paesi;

      inoltre le pareti delle sue camere provavano a Franz e ad  Alberto

      che era amatore di quadri.

      Qualche parola senza pretesa,  lasciata cadere di passaggio, provò

      loro che non era estraneo alle scienze, e sembrava soprattutto che

      si fosse particolarmente occupato di chimica.

      I due amici non avevano la  pretesa  di  restituire  al  conte  la

      colazione;  sarebbe  stata  una  cattiva burla offrirgli in cambio

      della sua eccellente tavola, la cucina molto mediocre di Pastrini.

      Glielo dissero francamente,  ed egli ricevette le loro scuse  come

      un uomo che apprezzava la loro delicatezza.

      Alberto  era  tanto  rapito dalle maniere del conte,  che,  se non

      fosse stato così fornito di scienza,  lo avrebbe creduto  un  vero

      gentiluomo.  La  libertà di disporre interamente della carrozza lo

      ricolmava di gioia, aveva le sue mire sulle graziose contadinelle,

      e siccome erano apparse il giorno  innanzi  in  una  elegantissima

      carrozza, era ben contento di continuare a comparire alla pari con

      loro.

      All'una  e  mezza  i  due giovani discesero;  il cocchiere e i due

      servitori avevano avuto l'idea di sovrapporre alle loro  pelli  di

      bestia  le  livree,  cosa  che  dava  loro  un  aspetto  anche più

      grottesco del giorno innanzi,  e che procurò loro i  rallegramenti

      di  Franz e di Alberto,  il quale aveva attaccato sentimentalmente

      all'occhiello della giacca il mazzetto di viole appassite.

      Al primo suono della campana partirono,  e si precipitarono  nella

      grande strada del Corso per la via Vittoria.

      Al  secondo  giro un mazzetto di viole fresche partì da un calesse

      carico di pagliaccine, e venne a cadere in quello del conte, e ciò

      indico ad Alberto ed al suo amico,  che le contadinelle del giorno

      innanzi  avevano cambiato costume;  e fosse caso,  o un sentimento

      uguale a quello che aveva fatto mutare abiti ai due amici, che con

      tutta galanteria avevano preso il loro costume, esse avevano preso

      quello dei due compagni.

      Alberto adattò il mazzetto di viole fresche al  posto  dell'altro;

      ma  conservò  il mazzetto appassito in mano,  e quando incontrò di

      nuovo il calesse,  lo portò amorosamente  alle  labbra,  atto  che

      destò l'allegria non solo di quella che lo aveva gettato, ma anche

      di tutte le sue pazze compagne.

      La giornata non fu meno animata della precedente. Anzi è probabile

      che  un  profondo  osservatore  vi  avrebbe  potuto riconoscere un

      crescere di rumore e di allegria.

      Un momento videro il conte alla finestra,  ma quando  la  carrozza

      ripassò era già sparito.

      E'  inutile  dire  che  lo  scambio di civetterie tra Alberto e la

      pagliaccina dei mazzetti di viole durò tutta la giornata.

      La  sera   quando   rientrarono,   Franz   ritrovò   una   lettera

      dell'ambasciata:  gli veniva annunziato che il giorno dopo avrebbe

      avuto l'onore di esser ricevuto da Sua Santità.

      In tutti i suoi viaggi precedenti a Roma aveva chiesto ed ottenuto

      lo stesso favore; e tanto per religione che per riconoscenza,  non

      aveva  voluto mettere il piede nella capitale del mondo cristiano,

      senza genuflettersi in rispettoso omaggio  ai  piedi  di  uno  dei

      successori di San Pietro, raro esempio di tutte le virtù: egli non

      poteva  dunque  in  quel giorno pensare al carnevale.  Malgrado la

      bontà di cui circonda la sua grandezza è sempre  con  un  rispetto

      pieno  di  profonda  emozione  che  uno  si appresta ad inchinarsi

      davanti a questo nobile e santo vecchio.

      Uscendo dal  Vaticano,  Franz  ritornò  direttamente  all'albergo,

      evitando ancora di passare per la strada del Corso. Portava con sé

      un  tesoro di pietosi pensieri ai quali sarebbe stata profanazione

      il contatto delle folli allegrezze delle maschere.

      Alle cinque e dieci minuti Alberto rientrò.  Era  al  colmo  della

      gioia.  La pagliaccina aveva ripreso il costume da contadinella, e

      nell'incontrare la carrozza d'Alberto si era levata per un momento

      la maschera...

      Era graziosissima.

      Franz fece i suoi complimenti ad Alberto  che  li  ricevette  come

      persona che li riconosca dovuti.

      Aveva  osservato,  diceva,  da alcuni segni d'eleganza inimitabile

      che la sua bella sconosciuta  doveva  appartenere  alla  più  alta

      aristocrazia. Quindi risolvette di scriverle l'indomani.

      Franz  mentre  riceveva  questa  confidenza,  osservò  che Alberto

      voleva chiedergli qualche cosa e tuttavia esitava a domandare.

      Si disse pronto a fare per la sua felicità tutti i  sacrifici  che

      fossero  in  suo  potere.  Alberto  si  fece  pregare quanto esige

      un'amichevole cortesia e quindi confessò a Franz che  gli  avrebbe

      reso  un  sommo servigio abbandonando per l'indomani la carrozza a

      lui solo.

      Alberto attribuiva  all'assenza  dell'amico  l'estrema  bontà  che

      aveva avuta la bella contadina nell'alzare la maschera.  Si capirà

      che Franz non era tanto egoista per  trattenere  Alberto  nel  bel

      mezzo  di  un'avventura  che  prometteva  di  riuscire ad un tempo

      gradita alla sua curiosità, e lusinghiera per il suo amor proprio.

      Conosceva abbastanza la poca segretezza del suo degno  amico,  per

      esser  sicuro  che  lo  avrebbe  tenuto al corrente di tutti i più

      piccoli particolari della sua buona fortuna;  e siccome,  da tre o

      quattro  anni che percorreva l'Italia in tutti i sensi,  non aveva

      mai avuta l'occasione di cominciare neppure un simile intrigo  per

      conto suo, Franz non era dispiaciuto d'imparare come vanno le cose

      in simili affari.

      Promise  dunque  ad Alberto che l'indomani si sarebbe accontentato

      di guardare lo spettacolo dalle finestre del palazzo Ruspoli.

      Infatti il giorno dopo vide passare e ripassare Alberto.  Aveva un

      enorme  mazzo  di  fiori,  senza  dubbio  portatore  del biglietto

      amoroso.

      Questa probabilità si cambiò in certezza,  quando  Franz  vide  il

      medesimo  mazzo,  notevole per un giro di camelie bianche,  fra le

      mani della graziosa pagliaccina vestita di seta color rosa.

      Così la sera non era più gioia, ma delirio.

      Alberto non  dubitava  che  la  bella  incognita  non  gli  avesse

      risposto con lo stesso mazzetto.

      Franz  ne  prevenne i desideri dicendogli che tutto quel rumore lo

      stancava,  e che era risoluto ad impiegare la giornata seguente  a

      rivedere il suo album e a prendere annotazioni.

      Del  resto,  Alberto non si era ingannato nelle sue previsioni: il

      giorno  dopo  Franz  lo  vide  entrare  di  slancio  nella  camera

      scuotendo  con  trionfo  un rettangolo di carta che teneva per uno

      degli angoli.

      "Ebbene, mi sono sbagliato?"

      "Ha dunque risposto?" gridò Franz.

      "Leggete."

      Questa parola fu pronunziata con un tono  di  voce  impossibile  a

      descriversi.

      Franz prese il biglietto e lesse:

 

      "Martedì  sera,  alle sette,  discendete dalla carrozza dirimpetto

      alla via dei Pontefici,  e seguite  la  contadina  romana  che  vi

      strapperà  il vostro moccoletto quando arriverete al primo gradino

      della chiesa  di  San  Gaetano.  Abbiate  cura  perché  lei  possa

      riconoscervi,  di  mettere  un  nastro color rosa sulle spalla del

      vostro costume da pagliaccio.

      Da oggi sino a tale momento voi non mi rivedrete più.

      Costanza e discrezione."

 

      "Ebbene!" disse a Franz,  quando ebbe finita questa lettura,  "che

      ne pensate, mio caro?"

      "Penso"   rispose   Franz,   "che  la  cosa  prende  la  piega  di

      un'avventura molto piacevole."

      "Questo è pure il mio parere,  ed ho gran timore che andrete  solo

      al ballo del principe T."

      Franz  ed  Alberto avevano ricevuto quella stessa mattina l'invito

      del celebre banchiere romano.

      "State in guardia" disse Franz,  "tutta  l'aristocrazia  sarà  dal

      principe  e  se  la  vostra bella sconosciuta appartiene realmente

      alla nobiltà, non potrà fare a meno d'intervenirvi."

      "Che v'intervenga o no,  io conservo l'opinione  che  ho  di  lei"

      continuò  Alberto.  "Voi  avete il biglietto;  sapete che meschina

      educazione ricevono in Italia le donne  del  mezzo  ceto;  ebbene,

      rileggete  il  biglietto,  osservate  il carattere e trovatemi uno

      sbaglio di lingua o di ortografia."

      "Voi siete  dei  predestinati..."  disse  Franz,  nel  rendere  ad

      Alberto per la seconda volta il biglietto.

      "Ridete quanto vi piace, scherzate a vostro agio" rispose Alberto,

      "io sono innamorato."

      "Oh,  mio Dio, voi mi spaventate!" gridò Franz. "Vedo bene che non

      solamente andrò solo al ballo del  principe,  ma  anche  ritornerò

      solo a Firenze."

      "Il  fatto è che,  se la mia sconosciuta è amabile quanto è bella,

      vi avverto che mi stabilisco a Roma per sei settimane  almeno.  Io

      adoro  Roma,  e poi ho sempre avuto un trasporto straordinario per

      l'archeologia."

      "Ancora un altro o due  di  questi  incontri,  e  non  dispero  di

      vedervi membro dell'Accademia di belle lettere."

      Senza  dubbio  Alberto  si  accingeva  a  discutere seriamente sui

      diritti che poteva avere ad un seggio nell'Accademia,  ma  vennero

      in  quel  momento ad annunziare che il pranzo era servito: l'amore

      in Alberto non era contrario all'appetito;  si affrettò dunque col

      suo   amico  a  mettersi  a  tavola,   risoluto  a  riprendere  la

      discussione dopo il pranzo.

      Dopo il pranzo fu annunziato il conte di Montecristo.

      Da due giorni i due amici non lo  avevano  veduto.  Un  affare  lo

      aveva  chiamato  a Civitavecchia,  almeno a quanto disse Pastrini.

      Era partito la sera del giorno prima,  e già  era  di  ritorno  da

      un'ora.

      Il conte fu squisito.

      Sia che stesse all'erta, sia che l'occasione non svegliasse in lui

      le fibre armoniose,  che aveva già fatto risuonare due o tre volte

      nelle sue parole si comportò da tutt'altro uomo.

      Era per Franz un vero enigma.

      Il conte non poteva dubitare che il  giovane  viaggiatore  non  lo

      avesse  riconosciuto,  e  tuttavia non aveva detto una sola parola

      dopo il loro nuovo incontro,  che potesse tradire di averlo veduto

      altrove.

      Per  sua  parte  Franz,  qualunque fosse la volontà di alludere al

      loro primo incontro,  il timore di far cosa sgradevole ad un  uomo

      che  aveva  ricolmato  lui e l'amico di gentilezze,  lo trattenne:

      continuò dunque a mantenersi riservato come il conte.

      Il conte aveva saputo che i due amici avevano prenotato  un  palco

      al  teatro Argentina e si era risposto che non ce n'erano.  Perciò

      portava loro la chiave del  suo;  almeno  questo  era  l'apparente

      motivo della sua visita.

      Franz ed Alberto fecero qualche difficoltà, allegando il timore di

      privarne  lui;  ma  il  conte  rispose  che andando quella sera al

      teatro Valle,  il suo palco al teatro  Argentina  sarebbe  rimasto

      vuoto.

      Questa assicurazione risolvette i due amici ad accettare.

      Franz  si era un poco per volta abituato a quel pallore del conte,

      che lo aveva tanto colpito la prima volta che l'aveva  visto.  Non

      poteva  fare  a  meno  di render giustizia alla bellezza della sua

      fronte severa, della quale questo pallore era il solo difetto o la

      principale bellezza.

      Vero eroe di Byron, Franz non poteva non solo vederlo,  ma neppure

      e pensare a lui, senza immaginarsi quel viso tetro sulle spalle di

      Manfredi, o sotto la cotta d'armi di Lara. Egli aveva sulla fronte

      quella  piega  che  indica  la  presenza  incessante  di  un amaro

      pensiero,  aveva quegli occhi ardenti che leggono nel più profondo

      delle  anime,  quel  labbro  superbo sprezzante che dà alle parole

      quell'incisività che le fa imprimere profondamente  nella  memoria

      di chi ascolta.

      Il  conte non era più giovane,  aveva quarant'anni almeno,  ma ciò

      nonostante si capiva che era fatto  per  dominare  i  giovani.  In

      realtà,  per  un'ultima  somiglianza  con  gli eroi fantastici del

      poeta   inglese,    il    conte    sembrava    avere    il    dono

      dell'affascinazione.

      Alberto   era   incantato   della  fortuna  condivisa  con  Franz,

      d'incontrare un uomo simile.

      Franz era meno entusiasta, tuttavia subiva l'influsso che esercita

      un uomo superiore sugli spiriti di coloro che lo avvicinano.  Egli

      pensava al progetto,  che il conte aveva già manifestato due o tre

      volte,  di andare a Parigi,  e non dubitava che con  le  sue  doti

      personali,   con  quel  volto  magnetico  e  con  la  sua  fortuna

      colossale,   avrebbe  ottenuto  un  grande  successo.   Però   non

      desiderava trovarsi a Parigi quando egli vi fosse andato.

      La  serata  fu  passata come si passano ordinariamente a teatro in

      Italia: non ad ascoltare i cantanti,  ma a fare delle visite ed  a

      discorrere.

      La  contessa G.  voleva ricondurre la conversazione sul conte,  ma

      Franz le annunziò che aveva qualcosa di più nuovo da  narrarle,  e

      malgrado  le  dimostrazioni di falsa modestia alle quali si lasciò

      andare Alberto,  raccontò alla contessa l'avvenimento che  da  tre

      giorni interessava i due amici.

      Siccome  queste  tresche  non sono rare né in Italia,  né altrove,

      almeno se si deve credere ai viaggiatori,  la  contessa  non  fece

      minimamente  l'incredula,  e felicitò Alberto per un'avventura che

      prometteva di terminare in modo assai soddisfacente.

      Si lasciarono,  promettendosi di ritrovarsi al ballo del  principe

      T. a cui era stata invitata tutta Roma.

      La  dama  mantenne la parola: né il giorno dopo,  né l'altro dette

      segno ad Alberto di esistere.

      Finalmente giunse il martedì,  l'ultimo ed il più rumoroso  giorno

      del  carnevale.  Il  martedì  i  teatri  si  aprono alle dieci del

      mattino, perché dopo le otto della sera si entra in quaresima.  Il

      martedì tutti quelli che per mancanza di tempo,  di entusiasmo, di

      danaro non hanno preso parte alle precedenti  feste  si  mischiano

      all'ultimo  baccanale,   si  lasciano  trascinare  dall'orgia,   e

      tributano la loro parte di rumore e di movimento al rumore  ed  al

      movimento generale.

      Dalle  due alle cinque Franz ed Alberto stettero alla finestra del

      Corso battagliando a pugni di confetti con le carrozze della  fila

      opposta,  con le finestre,  e coi pedoni che circolano fra i piedi

      dei cavalli, fra le ruote delle carrozze,  senza che accada mai in

      mezzo  a  questa  spaventosa  mischia un solo incidente,  una sola

      disputa, una sola rissa.

      Sotto questo rapporto gli italiani sono il popolo per  eccellenza.

      Le feste per essi sono vere feste.

      L'autore  di  questa storia,  che ha abitato l'Italia cinque o sei

      anni,  non si ricorda mai  di  avere  veduta  una  sola  solennità

      turbata da uno di quegli incidenti che son corollario alle nostre.

      Alberto  trionfava col suo costume da pagliaccio.  Aveva sopra una

      spalla  un  nastro  color  rosa,  le  cui  estremità  cadevano  al

      garretto,  per  distinguersi  da  Franz,  che  aveva conservato il

      vestito da contadino romano.

      Più il giorno avanzava,  e più il  tumulto  diveniva  grande:  non

      c'era  su tutto quel selciato,  in tutte quelle carrozze,  a tutte

      quelle finestre,  una bocca muta,  un braccio ozioso;  era un vero

      uragano umano, composto di un tuono di grida, e di una tempesta di

      confetti,  di mazzetti d'aranci e di fiori.  Alle tre l'esplosione

      dei mortaretti tirati ad un tempo su piazza del Popolo e su piazza

      Venezia, rompendo a grande stento quest'orribile tumulto, annunciò

      che stavano per cominciare le corse.

      Le corse ed i moccoli sono gli episodi  particolari  degli  ultimi

      giorni di carnevale.

      Allo  sparo  dei mortaretti le carrozze rompono nello stesso punto

      le file e voltano ciascuna nella strada  traversa  più  vicina  al

      luogo  dove  si trovano.  Tutte queste evoluzioni si fanno con una

      meravigliosa rapidità,  e  senza  che  la  polizia  si  occupi  di

      assegnare  a  ciascuna il suo posto,  o di tracciare a ciascuna la

      sua strada.  I pedoni si ritirano  contro  il  muro  dei  palazzi,

      quindi si sente un rumore di cavalli e uno sguainar di sciabole.

      Un  plotone  di  gendarmi,  che  ne  presenta  quindici di fronte,

      percorre al galoppo  in  tutta  la  lunghezza  il  Corso,  che  fa

      sgombrare per dar posto alla corsa dei berberi.  Quando il plotone

      arriva a palazzo  Venezia,  il  rumore  di  un'altra  batteria  di

      mortaretti avvisa che la strada è libera.  Quasi subito,  in mezzo

      ad un clamore immenso universale, inaudito, si vedono passare come

      ombre sette o otto cavalli eccitati dalle  grida  di  trecentomila

      persone  e  dalle  castagnette di ferro appuntate che loro balzano

      sul dorso,  poi il cannone di  Sant'Angelo  tira  tre  colpi,  per

      annunziare  che il numero tre ha vinto.  Subito senz'altro segnale

      che quello, le carrozze si rimettono in movimento, rifluendo verso

      il Corso,  uscendo da tutte le strade come torrenti contenuti  per

      un  momento,  che si gettano tutti insieme nel letto del fiume che

      alimentano,  e l'onda immensa riprende più rapida che mai  il  suo

      corso fra le due rive di granito.

      Soltanto  un  nuovo  elemento  di  rumore  e  di  movimento si era

      mischiato a  questa  folla:  entrarono  in  scena  i  mercanti  di

      moccoli.

      I  moccoli  o moccoletti sono ceri che variano dalla grossezza del

      cero pasquale fino alla coda di un  sorcio,  e  risvegliano  negli

      attori  della  grande scena,  con cui termina il carnevale romano,

      due opposte preoccupazioni:

      1. Conservare acceso il proprio moccoletto;

      2. Spegnere il moccoletto degli altri.

      Avviene del moccoletto ciò che accade della vita degli uomini. Per

      quanto è in potere loro,  si adoperano a  conservarla,  e  sebbene

      certi che presto o tardi debba avere fine, tuttavia hanno indagato

      e  scoperto  mille modi per reciderla e toglierla innanzi tempo: è

      vero che per questa suprema  operazione  il  diavolo  non  ha  mai

      mancato  di  venir  loro  in  aiuto.   Il  moccoletto  si  accende

      avvicinandolo ad un lume qualunque.

      Ma chi potrà descrivere i mille mezzi inventati  per  spegnere  il

      moccoletto,  i  soffietti  giganteschi,  gli  spegnitoi mostri,  i

      ventagli sovrumani? Ciascuno si sollecitò a comprare i moccoletti,

      e Franz ed Alberto fecero come tutti gli altri.

      La notte si avvicinava rapidamente,  e  già  al  grido:  Moccoli!,

      ripetuto  dalle  voci stridule degl'industriosi,  due o tre stelle

      cominciarono a brillare al di sopra della folla.

      Fu come un segnale.

      In dieci minuti,  quarantamila lumi scintillarono,  discendenti da

      piazza  Venezia  a  piazza  del Popolo,  e risalenti da quella del

      Popolo a quella di Venezia.  Si sarebbe detta la festa dei  fuochi

      fatui.  Chi  non  ha veduto questa festa,  è impossibile che se ne

      possa formare un'idea.  Supponete che tutte le stelle si stacchino

      dal cielo, e vengano a formare sulla terra una danza insensata, il

      tutto  accompagnato  da grida che orecchio umano non ha mai potuto

      sentire sulla superficie del globo.  E' particolarmente in  questo

      momento  che non c'è più distinzione sociale.  Il facchino attacca

      il principe, questi il trasteverino,  il trasteverino il borghese,

      ciascuno soffiando, spegnendo, riaccendendo.

      Se  il  vecchio Eolo comparisse in quel momento sarebbe proclamato

      re dei moccoletti, ed Aquilone l'erede alla corona.

      Questa corsa folle e fiammeggiante durò circa due ore.  La  strada

      del Corso era rischiarata come in pieno giorno, si distinguevano i

      lineamenti  degli  spettatori  fino  al  terzo o quarto piano.  Di

      cinque  minuti  in  cinque  minuti  Alberto  guardava  l'orologio:

      finalmente  segnò  le  sette.  I  due  amici si ritrovavano a poca

      distanza dalla  via  dei  Pontefici;  Alberto  saltò  fuori  dalla

      carrozza col suo moccoletto in mano.

      Due  o  tre  maschere  vollero  avvicinarsi  per  spegnerlo  o per

      toglierlo; ma da bravo lottatore,  Alberto li respinse dieci passi

      distanti  da lui,  continuando la sua corsa verso la chiesa di San

      Giacomo.  I gradini erano carichi di curiosi  e  di  maschere  che

      lottavano  per strapparsi il moccoletto dalle mani.  Franz seguiva

      con gli occhi Alberto,  e lo  vide  mettere  il  piede  sul  primo

      scalino,  poi  quasi  subito  una  maschera  che  portava  il  ben

      conosciuto  costume  della  contadina  dal  mazzetto,  allungò  il

      braccio,  e  gli  tolse il moccoletto senza ch'egli facesse la più

      piccola resistenza.

      Franz era troppo lontano per sentire le parole che si scambiavano,

      ma senza  dubbio  non  furono  ostili,  poiché  vide  allontanarsi

      Alberto tenendo sotto braccio la contadinella.

      Per  qualche  tempo li seguì in mezzo alla folla,  ma alla via del

      Macello li perse di vista.

      D'improvviso,  il suono della campana che dà il segnale della fine

      del  carnevale  si  fece  sentire,  e nel medesimo istante tutti i

      moccoli si spensero come per incanto. Si sarebbe detto che un solo

      ed immenso colpo di vento li  aveva  tutti  annientati.  Franz  si

      trovò nell'oscurità più profonda.

      Allora  tutte  le  grida  cessarono come se il soffio possente che

      aveva spento i lumi,  avesse portato via  nel  medesimo  tempo  il

      rumore.  Non  s'intese  più  che  il  rotolar  delle  carrozze che

      riconducevano le maschere alle loro case;  non si videro  più  che

      pochi lumi brillare dietro le finestre.

      Il carnevale era finito!...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 37.

                       LE CATACOMBE DI SAN SEBASTIANO.

 

 

      Forse  Franz non aveva mai provato in vita sua un'impressione così

      rapida, un passaggio così improvviso dall'allegria alla tristezza,

      quanto in quel momento;  si sarebbe detto che per opera del soffio

      di  qualche  demone  della  notte,  Roma era stata cambiata in una

      vasta  sepoltura.  Un  caso  aumentava  ancora  l'intensità  delle

      tenebre:  la  luna  mancante non sorgeva che dopo le undici;  e le

      strade per le quali passava il giovane  erano  immerse  nella  più

      profonda oscurità.  Però il tragitto era corto,  e in capo a dieci

      minuti la sua carrozza,  o per meglio dire quella del  conte,  era

      davanti all'albergo Londra.

      Il  pranzo era pronto;  ma siccome Alberto aveva avvertito che non

      contava di tornare presto,  così Franz si mise a tavola  senza  di

      lui.  Pastrini,  che  era  abituato  a  vederli  pranzare insieme,

      s'informò della ragione  dell'assenza  di  Alberto;  ma  Franz  si

      limitò  a  rispondergli  che  Alberto  aveva  dovuto recarsi ad un

      invito ricevuto il giorno  innanzi.  Il  subitaneo  spegnersi  dei

      moccoletti,  l'oscurità succeduta alla luce, il silenzio che aveva

      sostituito l'immenso rumore,  avevano impresso  nello  spirito  di

      Franz  una  certa  malinconia  non esente da inquietudine.  Pranzò

      taciturno,  ad onta delle officiose premure dell'albergatore,  che

      entrò due o tre volte per sentire se gli bisognasse cosa alcuna.

      Franz  aveva  stabilito  di  aspettare  Alberto  il  più  a  lungo

      possibile.  Ordinò dunque la  carrozza  per  le  undici,  pregando

      Pastrini  di  mandarlo  ad  avvisare  appena fosse tornato Alberto

      all'albergo, qualunque potesse essere l'ora.

      Alle undici Alberto non era ancora ritornato.

      Franz si  vestì,  e  partendo  avvisò  l'albergatore  che  avrebbe

      passata la notte dal principe Torlonia.

      La  casa del principe Torlonia è una delle più belle case di Roma;

      sua moglie è una  delle  discendenti  della  famiglia  Colonna,  e

      disimpegna  gli  onori  di famiglia in modo perfetto: le feste del

      principe banchiere hanno celebrità europea. Franz ed Alberto erano

      giunti in Roma con lettere di raccomandazione per lui,  perciò  la

      prima  domanda  che il principe gli fece fu che fosse avvenuto del

      compagno di viaggio.

      Franz rispose che lo aveva lasciato pochi  momenti  prima  che  si

      spegnessero  i  moccoletti,  e lo aveva perduto di vista nella via

      del Macello.

      "Dunque non è tornato a casa?" domandò il principe.

      "L'ho aspettato fino adesso" rispose Franz.

      "E sapete dove sia andato?"

      "Precisamente, no; ma credo si tratti di qualche cosa di simile ad

      un convegno."

      "Diavolo!" disse il principe.  "E' un brutto giorno,  o per meglio

      dire una cattiva sera per far tardi... Non è vero, contessa?"

      Queste ultime parole erano dirette alla contessa G.,  che giungeva

      allora,  e che passeggiava appoggiandosi al braccio  del  fratello

      del principe, il duca di Bracciano.

      "Io trovo al contrario che questa è una bellissima notte, e quelli

      che  sono  qui  non  avranno a lamentarsi d'altro se non che passi

      troppo presto."

      "Ma io" riprese sorridendo il principe,  "non parlo di quelli  che

      sono  qui,   essi  non  corrono  altro  pericolo  che  gli  uomini

      d'innamorarsi di voi,  e le donne ammalarsi di  gelosia  vedendovi

      così bella; parlo di coloro che corrono le strade di Roma."

      "Eh,  mio  Dio,  e  chi  volete  che  corra  le  strade  di Roma a

      quest'ora, se non quelli che vengono dal ballo?"

      "Il nostro amico Alberto de  Morcerf,  signora  contessa,  che  ho

      lasciato  mentre  seguiva la sua bella incognita verso le sette di

      sera" rispose Franz, "e che dopo non ho più rivisto."

      "Come, non sapete dove sia?"

      "Niente affatto."

      "Ha con sé le armi?"

      "E' vestito da pagliaccio..."

      "Non avreste dovuto lasciarlo andare" disse il principe  a  Franz,

      "voi che conoscete Roma meglio di lui."

      "Sì,  davvero!  Sarebbe stato lo stesso che aver voluto fermare il

      numero tre dei berberi che oggi ha vinto il  premio  della  corsa"

      rispose Franz. "E poi che volete che gli accada?"

      "Chi lo sa? La notte è oscura, e il Tevere è molto vicino alla via

      del Macello!..."

      Franz  sentì  un fremito scorrergli per le vene,  sentendo le idee

      del  principe  e  della  contessa  in  accordo  coi  suoi   timori

      personali.

      "Per questo ho avvisato l'albergatore che avevo l'onore di passare

      qui  la  notte" disse Franz,  "e debbono venire ad avvertirmi qui,

      appena ritorna."

      "Osservate" disse il  principe  a  Franz,  "ecco  appunto  un  mio

      domestico, che credo cerchi di voi."

      Il  principe  non  s'ingannava:  appena il domestico ebbe scoperto

      Franz si avvicinò a lui, e gli disse:

      "Eccellenza,  l'albergatore dell'hotel Londra vi fa avvertire  che

      alla  locanda c'è un uomo che vi aspetta con una lettera del conte

      di Morcerf."

      "Con una lettera del conte!" gridò Franz.

      "Sì."

      "E chi è quest'uomo?"

      "Non lo so."

      "E perché non è venuto a portarmela qui?"

      "Il messaggero non mi ha data alcuna spiegazione."

      "E dov'è il messaggero?"

      "E' partito appena mi ha visto entrare nella sala per cercarvi."

      "Oh,  mio Dio" disse la contessa a Franz,  "andate presto.  Povero

      giovane: forse gli è accaduta qualche disgrazia."

      "Vado subito..." disse Franz.

      "Vi rivedremo per sapere le notizie?" chiese la contessa.

      "Sì,  se  la cosa non è grave;  altrimenti non posso prevedere ciò

      che farò io stesso."

      "In ogni evento, siate prudente" disse la contessa.

      "Oh, state tranquilla."

      Franz prese il cappello e partì in tutta fretta.  Aveva licenziata

      la  carrozza,  ordinandola per le due.  Ma per fortuna la casa del

      principe,  che corrisponde da una parte sul  Corso,  e  dall'altra

      sulla piazza dei Santissimi Apostoli,  è a dieci minuti di cammino

      dall'albergo Londra.

      Avvicinandosi all'albergo Franz vide un uomo ritto in  mezzo  alla

      strada avvolto in un gran mantello: non dubitò che questi fosse il

      messaggero  d'Alberto;  restò però meravigliato che gli rivolgesse

      per primo la parola.

      "Che volete, Eccellenza?" disse facendo un passo indietro come uno

      che voglia tenersi in guardia.

      "Non siete voi" chiese Franz,  "che mi avete portato  una  lettera

      del conte di Morcerf?"

      "Vostra Eccellenza abita all'albergo di Pastrini?"

      "Sì."

      "Vostra Eccellenza è il compagno di viaggio del conte?"

      "Sì."

      "Come si chiama?"

      "Il barone Franz d'Epinay."

      "E'   precisamente  a  Vostra  Eccellenza  che  è  diretta  questa

      lettera."

      "Vi abbisogna risposta?" domandò Franz  nel  prendere  la  lettera

      dalle sue mani.

      "Sì, o almeno il vostro amico lo spera."

      "Allora salite da me, che ve la darò."

      "Sarà meglio che l'aspetti qui..." disse ridendo il messaggero.

      "E perché?"

      "Vostra Eccellenza lo capirà meglio quando avrà letta la lettera."

      "Allora vi ritroverò qui?"

      "Senza dubbio."

      Franz entrò e per le scale s'imbatté in Pastrini.

      "Ebbene?" gli domandò questi.

      "Ebbene, che?" rispose Franz.

      "Avete  visto  l'uomo che desiderava parlarvi per parte del vostro

      amico?"

      "Sì,  l'ho veduto" rispose  Franz,  "e  mi  ha  consegnata  questa

      lettera. Vi prego di fare accendere un lume nella mia camera."

      L'albergatore  dette ordine ad un domestico di precedere Franz col

      lume.

      Il  giovane  aveva  osservata  un'aria  spaventata  sul  viso   di

      Pastrini, il che non aveva fatto che raddoppiargli la curiosità di

      leggere la lettera d'Alberto: si accostò al candeliere,  appena fu

      accesa la candela, e piegò il foglio.

      La lettera era scritta e firmata dalla mano d'Alberto.

      Franz la lesse due volte,  tanto  era  lontano  dal  figurarsi  il

      contenuto. Eccola riportata letteralmente:

 

      "Mio caro amico,

      appena  avrete  ricevuta  la  presente,  abbiate la compiacenza di

      prendere nel mio portafogli che troverete nel cassettino  del  mio

      scrigno la credenziale: uniteci la vostra,  se non basta.  Correte

      da Torlonia, e ritirate da lui sul momento quattro mila scudi, che

      consegnerete al  latore  della  presente.  Preme  grandemente  che

      questa  somma  mi giunga senza alcun ritardo.  Non insisto di più,

      contando su voi, come voi potreste contare su di me. vostro amico,

      Alberto de Morcerf.

      Post scriptum. Adesso credo ai banditi italiani.

 

      Sotto queste righe erano scritte da mano sconosciuta  le  seguenti

      parole:

      "Se  alle  sei  di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie

      mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere.

      Luigi Vampa."

 

      Questa firma spiegò ogni  cosa  a  Franz,  che  capì  l'avversione

      mostrata dal messaggero a salire in camera: la strada gli sembrava

      più sicura.

      Alberto era caduto nelle mani di quel famoso capo di banditi, alla

      cui esistenza non voleva credere.

      Non  c'era  tempo  da  perdere:  corse allo scrigno,  l'aprì e nel

      cassettino  indicato  ritrovò  il  portafogli,   ed  in  esso   la

      credenziale  di  seimila  scudi  in tutto: ma Alberto ne aveva già

      presi tremila.

      Franz non aveva alcuna credenziale;  domiciliando  a  Firenze,  ed

      essendo  venuto a Roma per passarvi gli otto giorni del carnevale,

      non aveva preso che un centinaio di luigi, e non gliene rimanevano

      che appena cinquanta.

      Gli mancavano dunque sette o ottocento scudi  per  poter  riunire,

      fra  lui  ed  Alberto,  la somma richiesta.  E' vero che in simile

      congiuntura Franz poteva calcolare sulla gentilezza di Torlonia.

      Egli si disponeva dunque a ritornare al palazzo del principe senza

      perdere un momento,  quando d'improvviso gli venne alla mente  una

      felice idea...

      Pensò al conte di Montecristo.

      Stava  per  far chiamare Pastrini,  quando questi si presentò alla

      porta.

      "Mio caro Pastrini, credete che il conte sia in casa?"

      "Sì, Eccellenza, è entrato or ora."

      "Avrà avuto tempo d'andare a letto?"

      "Non credo."

      "Allora suonate alla sua porta,  ve ne prego,  e domandate in nome

      mio il permesso di potermi presentare a lui."

      Pastrini  si  affrettò  ad  eseguire la commissione: cinque minuti

      dopo rientrò.

      "Il conte aspetta Vostra Eccellenza" disse.

      Franz traversò il pianerottolo;  un domestico  lo  introdusse  dal

      conte.

      Era  in  un  piccolo salotto che Franz non aveva mai visto,  tutto

      circondato da un divano; il conte gli venne incontro.

      "Oh,  qual buon vento vi conduce da me a  quest'ora?"  gli  disse.

      "Venite forse a chiedermi la cena?  Per Bacco, sarebbe davvero una

      bella gentilezza per parte vostra."

      "No, vengo a parlarvi di un affare molto grave."

      "Di un affare!" disse  il  conte  fissandolo  con  quello  sguardo

      scrutatore che gli era proprio. "E di quale affare?"

      "Siamo soli?"

      Il conte andò alla porta, poi ritornò.

      "Assolutamente soli..." disse.

      Franz gli presentò la lettera d'Alberto.

      "Leggete!" disse.

      Il conte lesse la lettera.

      "Ah, ah" fece egli.

      "Avete veduto il post-scriptum?"

      "Sì, lo vedo bene...

      "Se  alle  sei  di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie

      mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere.

      Luigi Vampa."

      "Che ne dite?"  domandò  Franz.  "Avete  la  somma  che  vi  viene

      richiesta?"

      "Si, meno ottocento scudi."

      Il  conte  si accostò allo scrigno e ne trasse un cassettino pieno

      d'oro.

      "Io spero" disse a Franz,  "che non vorrete  farmi  l'ingiuria  di

      rivolgervi ad altri."

      "Vedete che sono venuto direttamente da voi..." disse Franz.

      "Ed io ve ne ringrazio: prendete."

      E fece segno a Franz di prendere nel cassettino.

      "Ma  è  poi  assolutamente necessario mandare questa somma a Luigi

      Vampa?" chiese il giovane fissando a  sua  volta  lo  sguardo  sul

      conte.

      "Diavolo, giudicatene voi stesso: il post-scriptum è preciso."

      "Mi sembra che,  se volete prendervi l'incomodo di pensarvi, forse

      trovereste un mezzo per semplificare molto la  faccenda..."  disse

      Franz.

      "E quale?" chiese il conte meravigliato.

      "Per  esempio,  se  andassimo insieme a trovare Luigi Vampa,  sono

      sicuro che non vi negherebbe la libertà di Alberto."

      "A me? Quale influenza volete che io abbia su questo bandito?"

      "Non gli  avete  appena  reso  uno  di  quei  favori  che  non  si

      dimenticano più?"

      "E quale?"

      "Non avete salvato la vita a Peppino?"

      "Ah, ah" fece il conte, "e chi ve lo ha detto?"

      "E che importa a voi questo? Io lo so."

      Il conte rimase per un momento muto col sopracciglio aggrottato.

      "E se io andassi a trovare Vampa, mi accompagnereste voi?"

      "Se la mia compagnia non vi è sgradevole..."

      "Ebbene,  sia:  la  notte è bella;  una passeggiata nella campagna

      romana non può farci che bene."

      "Bisognerà prendere armi?"

      "Per far che cosa?"

      "Denaro?"

      "E'  inutile.   Dove  si  trova  l'uomo  che  ha  portato   questo

      biglietto?"

      "Nella strada."

      "Aspetta la risposta?"

      "Sì."

      "Bisogna sapere dove andremo: ora lo chiamerò."

      "E' inutile, non ha voluto salire."

      "Da voi forse, ma da me non farà nessuna difficoltà."

      Il  conte  aprì  la  finestra  del salotto che corrispondeva sulla

      strada,  e fischiò in un modo particolare.  L'uomo dal mantello si

      staccò dal muro cui era appoggiato e si avanzò fino al mezzo della

      strada.

      "Salite!"  disse il conte col tono con cui si darebbe un ordine al

      servitore.

      Il messaggero obbedì senza indugio,  senza  esitazione,  anzi  con

      sollecitudine.

      Saliti  i quattro scalini dell'andito,  entrò nell'albergo,  ed in

      cinque secondi era già alla porta del salotto.

      "Ah, sei tu, Peppino?" disse il conte.

      Ma Peppino invece di rispondergli,  gli si gettò  alle  ginocchia,

      prese le mani del conte, e v'impresse a più riprese le labbra.

      "Ah,  ah" disse il conte, "tu non hai ancora dimenticato che ti ho

      salvata la vita? E' singolare! Eppure sono già otto giorni."

      "No,  Eccellenza,  non lo dimenticherò  mai..."  rispose  Peppino,

      coll'accento della più viva riconoscenza.

      "Non  mai?  E' troppo lungo;  però è ancora molto che tu lo creda.

      Alzati e rispondimi."

      Peppino gettò uno sguardo inquieto su Franz.

      "Oh, oh, tu puoi parlare davanti a Sua Eccellenza" disse il conte,

      "poiché è un mio amico.  Voi permettete che vi dia questo titolo?"

      disse   in  francese  volgendosi  a  Franz.   "E'  necessario  per

      accattivarsi la fiducia di costui."

      "Potete parlare in mia presenza, essendo un amico del conte."

      "Alla  buon'ora!"  disse  Peppino  volgendosi  al  conte.  "Vostra

      Eccellenza m'interroghi, ed io risponderò."

      "In che modo il conte Alberto è caduto nelle mani di Luigi?"

      "Eccellenza,  la  carrozza  del  francese ha incrociata più di una

      volta quella di Teresa."

      "L'amica del capo?"

      "Sì,  il francese le  ha  fatto  gli  occhi  dolci.  Teresa  si  è

      divertita a rispondergli;  il francese le ha gettato dei mazzetti,

      lei gliene ha ricambiati; e tutto ciò, s'intende, col consenso del

      capo che era nella stessa carrozza."

      "Come!"  gridò  Franz,  "Luigi  Vampa  era  nella  carrozza  delle

      contadine romane?"